Una lettera scritta con il cuore, per ricordare

In occasione della Giornata della Memoria , questa mattina, alle 11, nel nostro Auditorium si è tenuta la cerimonia di consegna da parte del Prefetto di Vicenza delle medaglie d’onore a vicentini militari e civili deportati o internati nei lager nazisti durante l’ultimo conflitto mondiale. Sono stati ben 28 i vicentini insigniti delle medaglie d’onore, appartenenti a vari Comuni: cinque i vicentini internati/deportati nei lager: Vittorio Cumerlato, Francesco Lampedecchia, Girolamo Mariotto, Luigi Mazzonetto, Luigi Niselli. La cerimonia ha visto un intervento storico sul tema “Giusti nella Shoah” a cura della professoressa Rita Chiappini, responsabile per l’Italia dello Yad Vashem, e l’esecuzione di alcuni brani musicali da parte di alcuni studenti del Liceo musicale Pigafetta. Ma forse il momento di maggiore commozione lo si è registrato quando Mattia Salomoni Rigon, già studente del Canova, ha letto una lettera scritta di suo pugno, in onore del nonno Antonio Salomoni Rigon, internato militare di guerra. La riproponiamo integralmente.

Con queste righe vorrei rendere memoria al mio caro nonno paterno Salomoni Rigon Antonio che testimoniò la sua campagna di guerra dopo ben oltre quarant’anni dal finire del conflitto mondiale. Ci sono voluti i nipoti per poter confessare liberamente quella sua esperienza che lo ha segnato nel suo profondo e caratterialmente come uomo. Quest’anno saranno 75 anni che il secondo conflitto si è concluso e saranno 100 anni dalla nascita della nostra figura paternale di famiglia. L’anno appena trascorso era il decimo anniversario della sua scomparsa (2009-2019) e come una “legge dei grandi numeri” sono venuto a conoscenza della possibilità di richiedere questa onorificenza commemorativa per una medaglia d’onore ai cittadini italiani internati nel lager nazisti. La chiedo per il grande coraggio che ha avuto mio nonno di resistere a un conflitto che andava contro ogni sua volontà. Lui, classe 1920, fu chiamato con la leva del 1923 in quanto cercò di rinviare la chiamata alle armi. Era orfano di padre e “capofamiglia” di altri quattro piccoli fratelli. Essendo il fratello maggiore, doveva insieme alla madre accudire l’intera prole. La sua campagna di guerra iniziò da quel maledetto 08 settembre 1943 e fu una delle esperienze più crude che si portò dentro. Nei campi in Germania viveva in mezzo alla nebbia che penetrava gli occhi e le ossa. Non so se la congiuntivite cronica, certificata nelle visite mediche successive al rientro in patria, fu causata da questa sua esperienza. So solo che rinunciò più di una volta al suo pezzo di pane per salvare un suo amico. Me lo ripeteva spesso:
“ Ah Mattio… la fame se lo ga magnà e non potevo farghe gnente se non darghe el me toco de pan…”. Mangiavano bucce di patate che ai loro occhi sembravano una manna dal cielo. Gli anni della guerra furono anni di un calvario in cui non esistevano punti di riferimento e neppure nozioni sul tempo che trascorreva. Il freddo, la nebbia, la pioggia e talvolta anche il sole erano solo l’evolversi delle giornate con il duro lavoro estremo. Gli stati febbrili non guardavano e non sensibilizzavano nessuno. C’era chi moriva nel campo per malattia e per la fame. Queste sue testimonianze mi venivano raccontate in particolar modo durante l’estate quanto lo stato d’animo di mio nonno era più vivace e spensierato. Il caldo lo animavano a raccontarsi e confessarsi con noi nipoti. Purtroppo la mia giovane età era ancora immatura per trascrivere tutto quello che mi raccontava e solo dopo e distanza di anni capii che mio nonno era un internato militare di guerra. Non aderì mai al fascismo e non aderì mai a nessun movimento di guerra. Un uomo che ne ha viste di cotte e di crude e che si salvò per molte circostanze del caso. La vita di malgaro ai piedi dell’Altopiano di Asiago lo prepararono a sua insaputa a tre anni di guerra in modo saldo e soprattutto nel ritorno a casa.
Macinava, ancora prima di partire, chilometri al giorno e gli “anticorpi” di un uovo crudo o di un latte appena munto lo difesero dalle infezioni più gravi. Dalla Germania, dallo STALAG III B di Furtsteberg, da come scoprii e da come mi raccontò, fu trasferito a lavorare nel porto di Danzica ma poi, quando l’Armata Rossa cercò di liberare lo stretto portuale, fu preso prigioniero dai Russi perché considerato collaboratore dei tedeschi. Queste nozioni non sono riportate nel libretto militare ma dalla cronaca orale di quei cari anni. Fu per lui una sorte amara ed umiliante l’essere doppiamente prigioniero. Io so solo che mio nonno non si rendeva neanche conto di cosa lui fosse. Un numero matricolare di prigionia il 303088 che era davvero soltanto un numero.
Me lo disse: “A non capivo niente…”. Sembra, restando ai fatti, che una guardia russa lo abbia lasciato scappare quando capirono effettivamente le sue generalità. Da quel momento iniziò la sua tregua attraversando a piedi e con mezzi di fortuna l’intera Polonia e gli altri stati confinanti. Dico per certezza la Polonia perché della Polonia ebbe un bellissimo ricordo in quanto riuscì a trovare rifugio in un vecchio podere dove per alcune settimane insieme a un suo amico riuscirono a rigenerarsi e trovare da mangiare grazie alla benedizione di alcune persone. In conclusione tutte le informazioni specifiche le scoprii solo successivamente alla sua morte richiedendo appunto il fascicolo matricolare. Mio nonno non sapeva nemmeno dove si trovasse nei luoghi e nei lager della Germania. L’unica parola che riusciva a pronunciare in tedesco era “Kartoffeln” ovvero “patate”. In ultima credo che mio nonno in guerra avesse perso la fede e che l’avesse ritrovata solamente quando vide l’elezione di Papa Woityla del 1978. La ritrovò perché quello era il Papa della sua Polonia e della sua liberazione. Un Papa che per consolazione era della stessa classe di mio nonno ovvero della classe 1920 e nato esattamente sei mesi prima.
Mio nonno, Salomoni Rigon Antonio, era semplicemente un giovane uomo cresciuto troppo in fretta perché una guerra spalancava le porte senza chiedere permesso.